Il delitto d’onore degli uomini del disonore
Lia Pipitone: La figlia del boss assassinata per onore e Lea Garofalo: Vittima innocente assassinata dal padre di sua figlia
Chiara Valenza 4^D
Lia Pipitone: La figlia del boss assassinata per onore
Quest’anno
il programma di Educazione Civica ha previsto la lettura del libro
“Se muoio, sopravvivimi” di Alessio Cordaro che narra la storia di
Lia Pipitone, figlia del capomafia dell'Acquasanta di Palermo e del
suo grido di libertà soffocato nel sangue. Lia era una donna, una
madre e un’artista uccisa all’età di venticinque anni con il
consenso del padre Antonino Pipitone per aver intrattenuto una
presunta relazione extraconiugale, violando così l'onore della sua
famiglia secondo i principi di Cosa Nostra.
Lia da ragazza aveva frequentato il liceo artistico, le ore
trascorse all’interno dell’ambiente scolastico significavano per lei
gli unici attimi di libertà da poter respirare al di fuori
dell’opprimente ambiente familiare in cui viveva. Lei amava occupare
il tempo libero tra le vie dello shopping di Palermo e le
passeggiate al mare dell’Arenella, un’altra grande passione era la
poesia e i versi di Pablo Neruda. Tra i banchi di scuola conobbe
Gero Cordaro e spinta dalla passione amorosa e dal desiderio di
libertà scelse di fuggire per sposarsi, una decisione considerata
azzardata dal padre e molto coraggiosa per quel tempo.
Dopo
la “fuitina”, alcuni uomini, su indicazione del padre,
rintracciarono la giovane coppia. I due ragazzi furono trovati in un
paesino della provincia e venne loro imposto di tornare a Palermo.
La coppia senza indipendenza economica fu così costretta a fare
ritorno ed a vivere sotto il controllo di Antonino Pipitone. I primi
anni di matrimonio furono rallegrati dalla nascita di Alessio, ma il
desiderio di libertà e la voglia di vivere si fanno in Lia sempre
più forti.
Nel frattempo, nel quartiere cominciarono a girare voci su di lei
che usciva troppo da sola e si frequentava con un altro uomo al di
fuori del matrimonio, fin quando una sera comunicò al padre di aver
valutato la decisione di andare a vivere per suo conto senza il
marito. La reazione di Antonino Pipitone fu istantanea, si alzò e le
sputò in faccia in segno di grande disprezzo. Il 23 settembre 1983,
alle sei e mezza di sera, Lia entrò in una sanitaria e si diresse
verso il telefono a gettoni. Finita la sua telefonata si trovò
davanti due malviventi col volto coperto che si fecero consegnare
l’incasso di 250 mila lire. Ma anziché andarsene con il bottino,
aspettarono che la giovane giungesse vicino al bancone, uno dei due
le sparò prima alle gambe e poi con quattro proiettili la uccise.
Dopo
30 anni il figlio Alessio Cordaro ha scritto un libro-inchiesta,
intraprendendo un viaggio verso la conoscenza di sua madre
attraverso i ricordi dei parenti e di chi ha conosciuto Lia e
soprattutto rivedendo gli atti del processo e delle indagini
condotte dagli inquirenti. Il percorso di Alessio culmina non solo
con la pubblicazione del libro, ma soprattutto con la riapertura del
caso giudiziario. Si tratta di un cammino nelle vie della memoria e
del dolore, come se attraverso la ricostruzione della storia della
madre egli si riappropriasse di lei, dei suoi sogni e dei suoi
desideri più grandi e con la trasfigurazione da amarezza per la sua
assenza in consolazione.
“Stavamo intere giornate al mare, nella spiaggetta dell’Arenella. In
quel tratto di mare mi aveva insegnato a nuotare. Andavamo anche
sott’acqua, da una parte all’altra, fino al molo delle barche de
pescatori. Io avanti e tu sempre dietro, per tenermi sotto controllo
(…).
Sai, dopo la tua morte non sapevo più nuotare. E anzi, avevo una
terribile paura dell’acqua. Provarono in tutti modi. Prima con i
braccioli. Poi, la zia tentò un sistema più brusco, lanciandomi dal
gommone. Niente, ero terrorizzato dall’acqua. Forse il trauma di
averti persa mi portava ad allontanarmi da ciò che più di tutto ci
aveva uniti, la tua passione per il mare”.
Non è casuale la scelta del titolo del libro che tratto da una
poesia di Pablo Neruda che attraverso i versi esorta l’amato a
sopravvivere al dolore per la perdita e dare un senso alla sua
assenza per uscire dalla disperazione e tornare alla vita.
“Se muoio, sopravvivimi con tanta forza pura (…). Non voglio che
vacillino il tuo riso né i tuoi passi / non voglio che muoia la mia
eredità di gioia (…). Vivi nella mia assenza come in una casa (…). È
una casa così trasparente l’assenza / che senza vita io ti vedrò
vivere / e se soffri, amore mio, morirò nuovamente.” (Pablo
Neruda).
Lea Garofalo: Vittima innocente assassinata dal padre di sua
figlia
Le
vittime di mafia sono numerose, dopo la lettura del libro “Se muoio,
sopravvivimi” vorrei mettere in luce la storia di Lea Garofalo,
un’altra donna proveniente da un contesto mafioso che ad esso si
ribellò e pagò con la vita il suo fermo dissenso.
Lea Garofalo è stata una testimone di giustizia italiana, vittima
innocente di 'ndrangheta. Figlia di Antonio Garofalo e Santina
Miletta, rimanendo poi orfana all'età di nove mesi in quanto suo
padre venne ucciso nella cosiddetta “faida di Pagliarelle”. La
piccola Lea crebbe insieme alla nonna, alla madre e ai fratelli
maggiori Marisa e Floriano che, assunto il ruolo di capofamiglia,
anni dopo avrebbe vendicato l'omicidio del padre, salvo poi essere a
sua volta ucciso in un agguato, l'8 giugno 2005.
In età adolescenziale, Lea si innamorò del diciassettenne Carlo
Cosco e decise di stabilirsi con lui a Milano, dando alla
luce Denise.
La giovane donna fece il primo gesto eclatante quando decise di
trasferirsi in un'altra città, completamente ignara che il compagno
l'avesse scelta soltanto per acquisire maggior prestigio agli occhi
dei Garofalo. Il secondo arrivò il 7 maggio 1996, quando Carlo Cosco
e alcuni componenti della sua famiglia vennero arrestati per
traffico di stupefacenti. Durante un colloquio in carcere, la
ragazza gli comunicò la volontà di lasciarlo e di voler portar con
sé la figlia.
La reazione fu immediata e violenta, tanto che intervennero le
guardie per sedare la lite. Così madre e figlia abbandonarono Milano
e nel 2002, quando Lea si accorse dell'incendio della propria auto,
capì che i Cosco erano sulle loro tracce. Decise successivamente di
rivolgersi ai carabinieri e di raccontare tutto ciò che, nel corso
degli anni, aveva visto e sentito a Pagliarelle come a Milano e per
le sue dichiarazioni le due vennero inserite, con false generalità,
nel programma di protezione.
La vita da testimone di giustizia fu difficile, caratterizzata da
una profonda solitudine. Le dichiarazioni di Lea non sfociarono in
alcun processo, salvo poi che nell'ottobre 2013, condusse l'arresto
di 17 persone in varie città italiane e per questo motivo le viene
revocata la protezione ufficiale dello Stato.
Nel frattempo, gli anni non avevano cancellato la rabbia e il
rancore di Carlo Cosco nei confronti della sua ex compagna, che
abbandonandolo aveva offeso il suo onore. La sua sete di vendetta
venne soddisfatta il 24 novembre 2009, quando Lea e sua figlia si
trovavano a Milano da quattro giorni: partite da Petilia Policastro
alla volta di Firenze, prendendo il treno che le avrebbe portate nel
capoluogo lombardo. Fu lo stesso Cosco ad invitarle.
Si trattava però di una trappola, infatti l’uomo a conoscenza della
difficile situazione economica delle due donne, chiese a Denise di
raggiungerlo a Milano e Lea, che aveva a cuore il futuro della
figlia, decise che non l’avrebbe fatta partire da sola nonostante i
tentativi del proprio avvocato di dissuaderla.
In quei giorni, gli ex compagni di vita e la loro figlia trascorsero
molto tempo insieme, con l’obiettivo che Lea si potesse fidare di
lui.
Nel pomeriggio del 24 novembre, Lea e Denise decisero di concedersi
una passeggiata, in zona Arco della Pace e l'immagine di quella
camminata fu ripresa dalle telecamere della zona alle 18.15 circa.
Carlo Cosco le raggiunse, prendendo Denise e accompagnandola per
cena a casa del fratello Giuseppe Cosco. Poi l'uomo fece ritorno
all'Arco della Pace, dove teneva appuntamento con Lea.
L'omicidio fu commesso alle 19.10, in un appartamento di piazza
Prealpi, 2 a Milano e il corpo della giovane venne trasportato su un
terreno a San Fruttuoso e lì distrutto.
I processi per l'omicidio di Lea Garofalo sono nati grazie alla
figlia che la sera stessa dell'omicidio, sarebbe dovute rientrare in
Calabria insieme a lei, ma quando Denise vide che la madre non
tornava, intuì che le potesse essere successo qualcosa. Pertanto, si
recò ai carabinieri e denunciò la scomparsa. Il 18
ottobre 2010 scattarono le manette per Carlo Cosco e per gli altri
presunti partecipanti al delitto.
Il processo di primo grado iniziò il 6 luglio 2011.
In
sede processuale, Denise si costituì parte civile (difesa
dall'avvocato Enza Rando), dichiarandosi "orgogliosa di essere
contro il padre", seguita e supportata al Comune di Milano anche
dalla zia e dalla nonna. Sei gli imputati: Carlo Cosco, i
fratelli Giuseppe e Vito Cosco, Massimo Sabatino, Carmine
Venturino e Rosario Curcio, con l’accusa era di aver rapito,
torturato e ucciso Lea Garofalo la notte tra il 24 e il 25
novembre 2009 e di averne distrutto il cadavere.
Nel corso dell'estate 2012, Carmine Venturino decise di collaborare
con la giustizia. Il giovane venticinquenne venne assunto, dopo
l'omicidio di Lea Garofalo, da Carlo Cosco, affinché controllasse
Denise per impedirle di fare ulteriori deposizioni.Egli aveva
intrecciato una relazione sentimentale con la ragazza, in seguito
raccontò agli inquirenti che fu proprio per merito del coraggio di
Denise e dell'amore che sostenne di provare per lei che fu spinto a
raccontare la verità.
Il processo di appello iniziò il 9 aprile 2013 e Carmine Venturino
raccontò che era stato Carlo Cosco ad uccidere la propria ex
convivente insieme al fratello Vito Cosco a cui venne affidato il
compito di prendere il cadavere e di metterlo in uno scatolone su un
furgone. Lì il corpo venne distrutto dalle fiamme per due interi
giorni, con la complicità di Rosario Curcio. L’ex compagno si difese
parlando di impulso di pazzia, ovvero di uno spintone dato a Lea
dopo aver perso la pazienza, che lei avesse battuto la testa
rendendo l’azione fatale. Confermò, invece, l'esclusione della
presenza del fratello e di Sabatino come partecipanti all'omicidio.
Secondo le motivazioni di secondo grado, non è possibile stabilire
cosa sia esattamente accaduto in quell'appartamento, escludendo però
che sia stato Carlo Cosco ad uccidere materialmente Lea Garofalo,
ritenuto invece il mandante dell'omicidio.
La corte di Appello del Tribunale di Milano ha confermato
l'ergastolo per Carlo e Vito Cosco, per Rosario Curcio e per Massimo
Sabatino, mentre ha ridotto la pena a 25 anni per Carmine Venturino
(grazie alla sua collaborazione) e ha assolto Giuseppe Cosco, che
attualmente sta scontando una pena di dieci anni per traffico di
stupefacenti. Il 19 ottobre 2013, sulla piazza Beccaria, tremila
persone diedero l'estremo saluto a Lea Garofalo. Finalmente alla
vicenda, per mesi passata sotto silenzio, venne dato il giusto
risalto.
In ricordo di Lea oggi ci rimangono i riconoscimenti ufficiali dati
dalle istituzioni a lei ed a sua figlia e soprattutto il suo
esempio.
Lo stesso giorno dei funerali, nei giardini di fronte a Via Montello
6, l'ex-fortino dei Cosco, venne affissa una targa in memoria di Lea
Garofalo, testimone di giustizia. Il 7 dicembre 2013 il Comune di
Milano conferì a Denise Cosco l'Ambrogino d'Oro, l'alta benemerenza
civica riservata a chi ha illustrato la città di Milano: per il suo
coraggio a denunciare il padre. Nel 2016 il gruppo rock dei Litfiba
decise di dedicare una canzone a Lea e Denise, “Maria Coraggio”. Il
14 marzo 2018 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
conferì a Lea la medaglia d'oro al merito civile. Il 7 dicembre 2018
in Piazza Prealpi, il Municipio di Milano inaugurò una panchina
rossa, simbolo contro la violenza sulle donne, dedicandola a Lea
Garofalo. L'intitolazione ufficiale a Lea dei Giardini di Via
Montello a Milano, nel 2020. di fronte al palazzo dove Lea abitava
con il suo ex-compagno e assassino, Carlo Cosco.
Lia e Lea due donne ribelli
I figli: esempio di riscatto e di lotta
Lea e Lia sono il simbolo della ribellione ad un sistema
socio-culturale deviato, tendente ad asservire la figura femminile
considerata pari ad un oggetto e ad eliminare chiunque possa opporre
resistenza.
Sono due donne nate e cresciute in un angusto contesto malavitoso,
che lottano e muoiono per la conquista della propria libertà. In
seguito saranno i propri figli a dare loro giustizia.
Lia e Lea mi sembrano due maestose figure di una tragedia greca, che
interpretano la parte assegnata dal Fato, a cui anche gli dei devono
inchinarsi.
Esse recitano con coraggio, dignità, fierezza e ferma volontà di non
adeguarsi a canoni i ruoli loro imposti, infrangendo perverse le
convenzioni sociali della mafia.
Credo che nelle nuove generazioni sia in atto un’inversione di
tendenza, ma al fine di avviare un cambiamento profondo e
risolutivo, necessita un grande impegno della scuola e dei
mass-media che attraverso l’educazione e la sensibilizzazione dei
giovani, sradichino l’idea secondo cui l’onore è insito nel corpo e
nei comportamenti delle donne.
Nessuno può concepire il delitto d’onore come un atto onorevole.
Non c’è alcun onore nell’uccidere.