E’ stato lo Stato.
Intervista impossibile a Mamadou Moussa Baldé

Alessandra e Salvo Cannova IV D

Mamadou Mamadou Moussa Baldé era un ragazzo africano, nato in Guinea nel 1993 e trasferitosi in Italia nel 2016.
Scappato dal suo paese natio per ragioni politiche, egli giunge in Italia con la speranza di avere un buon lavoro e una vita serena.
Nonostante gli studi, il suo attivismo nei confronti delle diverse etnie e la sua naturale bontà come persona, ha subito varie ingiustizie: la prima fra queste è il mancato riconoscimento del diritto d’asilo da parte della Commissione preposta a questo genere di pratiche, ragion per cui diventa clandestino ed è costretto a chiedere l’elemosina per strada e a vivere sotto un ponte nella città di Torino.
Continua a vivere in queste condizioni fino al 9 Maggio quando a Ventimiglia viene aggredito pesantemente da 3 italiani, due dei quali originari dalla provincia di Agrigento.
Dopo il pestaggio, viene portato nel Centro di Permanenza per i rimpatri di Torino perché non ha i documenti in regola.
Questo luogo è quasi come una prigione o peggio, all’interno della quale Baldé si sente come se fosse in un incubo.
Dopo 13 giorni infatti, viene ritrovato il corpo del ragazzo privo di vita, essendosi impiccato con un lenzuolo nella sua cella.

Ma adesso chiediamo allo stesso Mamadou di raccontarci la sua storia:

-Come ti chiami? Perché sei finito qui?

-Mi chiamo Mamadou Moussa. In realtà non so neanch’io quale sia la reale motivazione per la quale mi ritrovo qui. Forse sono soltanto segnato fin dalla nascita….

- Perché dici ciò? Da qual che abbiamo capito hai vissuto anche una vita abbastanza piena. Hai sempre fatto valere il tuo pensiero, anche facendo attivismo e così hai dispensato del bene. Sei stato un esempio per molti nostri coetanei.

- Non sempre, però, sono riuscito. È questo ciò che mi rattrista. Ho lottato tutta la vita per andare contro questo sistema ingiusto. E il prezzo che ho pagato è stato caro.

- Stai dicendo quindi che lottare, per te, è stato del tutto vano?

-Lottare è talvolta inutile: ho perso tutte le mie speranze e i sogni nonostante m’impegnassi ogni giorno per cambiare la situazione. Ma ho ottenuto solo di essere picchiato, essere additato come un criminale ed infine essere rinchiuso dietro queste gelide sbarre. Perché combattere se alla fine gli altri non si muovono per me e per, in generale, noi calpestati? Ero esausto per tutta questa ingiustizia. E alla fine ho fatto trionfare i miei aguzzini, perché mi sono tolto la vita. Sono consapevole che la gente vedrà il mio gesto come un suicidio, ma in realtà è stato lo Stato a uccidermi. Ha annientato me e continua ad annientare tante altre persone nelle quali risiede un minimo di speranza in una società equa per ogni individuo, un mondo in cui non importa che pelle hai, quale religione professi o di che orientamento sessuale sei, ma dove tu sei semplicemente tu e sei apprezzato come persona piuttosto che come una categoria e non ti giudichino dalla classe sociale da cui provieni. Scusate, mi sono dilungato troppo.

-Non devi curartene Mamadou, d’altronde questa è un’intervista e a noi interessa ascoltarti. Divulgheremo tutto ciò di cui stiamo discutendo. Non vogliamo farti morire due volte quindi ci è sembrato doveroso diffondere la tua storia. Un’ultima domanda: ha fatto male?

-Per nulla, mi addolorava nettamente di più stare in vita.

Mamadou