In
questi giorni di forzata permanenza a casa per via dell’emergenza
epidemiologica, gli spazi del quotidiano vengono vissuti con occhi
nuovi, forse persino riscoperti. Tutto ci è ovviamente familiare, ma
è proprio restando fermi a ciò che è ritenuto come “scontato” che
molto può sfuggirci. Per vedere diversamente il circostante, quindi,
potremmo partire dall’esperienza che stiamo attraversando per trarne
un’opportunità, quella di porre un incremento d’attenzione a come la
nostra abitazione è strutturata, a quali sono le cose (termine –
ricordava Remo Bodei – più “caldo” del distaccato oggetto che si
contrappone al soggetto) che ogni giorno riempiono le ore del nostro
abitare, dandoci un maggior senso di sicurezza ed appartenenza.
Lo spunto potrebbe essere quello di una riflessione sullo stare a
casa, al di là della cogenza attuale, di coglierne l’alto valore
ritemprante, spingendoci nell’inesplorato campo delle tante,
piccole/grandi storie che si associano ad ogni foto, pittura,
cimelio o quant’altro che occupi con discrezione l’orizzonte visuale
del nostro privato. Si tratta di rallentare, di rimarcare i sottili
connotati del con-vivere, di aver consapevolezza dell’importanza di
avere e condividere una casa unitamente al crescente desiderio di
farcene una nostra una volta autonomi. Un luogo dove sentirsi a
proprio agio per rigenerare la voglia di uscire liberamente, in
mezzo agli altri, per lavorare, provvedere a ciò che serve,
viaggiare, incontrarsi o fare anche solo due passi; insomma: per
stare in società. La casa, quindi, nei suoi aspetti squisitamente
positivi, con tutto il potenziale simbolico-affettivo del suo
arredo, quale pre-testo per una “psicologia dell’abitare” che può
offrire talune possibilità di lettura, anche e soprattutto in
momenti come quelli odierni. Trascorrere le nostre ore in
un’abitazione non è un mero occupare dei metri quadrati, star lì col
proprio corpo; o almeno non è solo quello, ma afferisce piuttosto
alla sfera dell’intimità, che in parte ci rappresenta. L’abitare
risiede nei pressi della costante ricerca di se stessi.
Il Covid-19 verrà debellato! Confidiamo in chi ha l’onere della
tutela della cosa pubblica, nello sforzo di chi indefessamente
continua a prodigarsi per la collettività, nella capacità di
resilienza di ciascuno e “tutto andrà bene”. Torneremo alle nostre
libertà, a vivere in pienezza e dialetticamente il binomio
dentro/fuori casa. Nel frattempo, quest’ultima non solo ci protegge,
ma si offre anche come un laboratorio educativo-civico, dove ogni
forma di contatto a distanza, dall’affacciarci all’uso dei vari
media, tenta di colmare una diffusa sensazione di vuoto sociale. È
una situazione difficile, ma è probabile che soprattutto i ragazzi
comprenderanno ancor più che la libertà non è un bene conquistato
una volta per tutte, ma che richiede impegno costante e senso di
responsabilità. Saper assaporare il tempo dedicato allo stare in
casa, mettendolo a frutto, significa farsi costruttori di un ponte
gettato fra due sponde, quella pubblica e quella privata, nel
rispetto di quei con-fini che “segnano – come dice Claudio Magris –
l’esperienza, il linguaggio, lo spazio dell’abitare”. Quella
trascorsa all’interno della propria abitazione è una dimensione
fatta di corpi, spazi, oggetti ed immagini, tra le cui finalità
rinveniamo il prendersi cura di sé e delle persone a noi più care,
il partecipare alla co-edificazione di una consistente parte della
nostra personalità. È il perimetro palpabile di un noi dove, tra
l’altro, si educa e ci si educa all’interiorità come al dialogo
intergenerazionale, che non rigetta il resto del consesso umano, ma
che semplicemente lo mantiene ad una certa distanza, lo rinvia
all’indomani. La vita autentica è fatta di relazione, ma non
gradisce forzate invadenze da “grande fratello”! Rimanere a casa non
è di per sé isolamento, ma un atto di franca com-presenza e/o un
trattenersi in frangenti di ricercata solitudine.
Fra le tante attività, quindi, che potremmo porre in essere in
questo particolare periodo c’è quella dell’osservare più d’appresso
“la vita delle cose” e chiederci come abbiano fatto il loro ingresso
in casa, a quali episodi o persone si ricolleghino. Non esistono
cose, nuove o logore che siano, messe in bella mostra nelle nostre
stanze che non abbiano una loro ragion d’essere proprio lì. Ve ne
saranno alcune di valore, altre meno. Non importa. Tutte, se poste a
presidio di porzioni di quel nostro “angolo di mondo”, come direbbe
Gaston Bachelard, hanno un che di speciale. Le cose devono servirci,
certo; non è il caso di ergerle a totem di un passato più o meno
recente, ma è bene ricordare che possono costituirsi come squarci di
significato che ci consentono un particolare andirivieni
interpretativo che dà più intensità a quanto ci fa da sfondo. Casa e
cose ricambiano la nostra propensione al custodire.
In parallelo, pensiamo all’altra “casa” di tutta la nostra comunità
educante: il “Regina Margherita”. Istituto di antiche tradizioni, ha
così tanto da dirci nella sua fisicità che spesso non ce ne
accorgiamo a pieno. Quadri, cartelloni, ritratti, libri,
certificati, diplomi, attestati, coppe, lavori di gruppo, cartine,
manifesti, poster che ogni giorno accompagnano le nostre attività in
aula, nei laboratori, in palestra, in sala teatro o negli uffici.
Stralci di un con-testo dove tutti contribuiamo a dar senso al fare
scuola. A volte, però, qualcuno oltrepassa impropriamente il limite,
arrecando danni all’arredo e si è costretti così a sostituire sedie,
banchi e a ritinteggiare le pareti o la facciata del “nostro”
edificio scolastico. Al netto della giusta sanzione per chi,
contravvenendo al regolamento d’Istituto, lede ciò che è di tutti, è
facile convenire che qualunque traccia scritta apra tuttavia piccoli
varchi su taluni aspetti dell’universo giovanile. Pur nel loro
errare, certe forme espressive trasversali lanciano dei segnali, da
captare e su cui adoperarsi per ri-orientarne l’energia. Frasi,
disegni, citazioni, slogan e quant’altro che si fanno frammenti di
un’esuberanza, dai tratti non di rado creativi, che dà luogo a un
novero di messaggi che coagulano porzioni di stati d’animo “fuori
dalle righe”. Segni che non andrebbero ignorati o rimossi sic et
simpliciter con una mano di bianco, senza non aver prima provato a
coglierne meglio i contorni.
La scuola, dunque, come una sorta di ampliamento degli spazi
domestici, ma che per le sue specificità chiede, quanto meno,
altrettanto rispetto. Un luogo in cui quotidianamente ci ritroviamo
a comporre assieme una trama, la cui punteggiatura è scandita
dall’educazione alla convivenza civile.
I portoni di casa e del “Margherita”, non appena possibile,
riapriranno al nostro libero e continuo transito. In attesa,
potremmo provare ad apprezzare di più il valore del so-stare in
entrambe le case.
Prof. Francesco Paolo Calvaruso