La scelta di morire divide le coscienze - Agnese Messina - classe III X
La scelta di morire, per i malati terminali divide le
coscienze. Se siamo liberi di vivere come vogliamo, siamo
anche liberi di morire quando vogliamo?
Le risposte sono due: il sì di chi ammette l’eutanasia in
presenza di atroci sofferenze e il no di coloro che non
accettano che si possa decidere della morte propria o
altrui.
Già in epoca babilonese vi erano stati casi di suicidio
assistito, così come nel periodo pre-cristiano, con
l’epicureismo e con lo stoicismo (le cronache del tempo
ricordano la morte di Seneca).
Tuttavia, è nella prima metà del ventesimo secolo che il
tema fa la sua vera e propria comparsa.
Argomento delicato di cui si discute sempre più, in seguito
alla morte di Fabiano Antoniani, l'uomo di 40 anni che, dopo
essere rimasto tetraplegico in un incidente nel 2014, ha
chiesto allo Stato italiano una legge per poter usufruire
dell'eutanasia. Fabiano ha poi scelto di andare a morire in
Svizzera, in una clinica dove il suicidio assistito viene
praticato nei casi di malattie gravi e non recuperabili.
Fabiano Antoniani, meglio noto come DJ Fabo, nel suo
testamento morale spiega i motivi della sua decisione e le
sofferenze che ha dovuto sopportare dal giorno
dell’incidente.
La legislazione italiana non prevede l'eutanasia e la
classifica come suicidio assistito, punibile fino a 12 anni
di reclusione per chi “assiste” il malato.
Ma quale giudice può stabilire il limite oltre il quale si
riesce a conferire significato e valore alla propria
esistenza? Fino a che punto la vita di un uomo va difesa ad
oltranza anche quando la sofferenza è tale da renderla
disumana?
Dopo la morte di Fabiano il dibattito si è riacceso in
Italia e nel nostro Parlamento si sta pensando a una legge,
grazie anche all'appello di numerosi medici. Chi non riesce
più a tollerare di vivere una condizione fisica, divenuta
ormai insostenibile, non può continuare a fuggire all’estero
come un “clandestino”; perché è un prezzo troppo alto pagato
alla pigrizia di una classe politica incapace di assumersi
le proprie responsabilità.
«Vorrei poter scegliere di morire senza soffrire», diceva dj
Fabo nell’appello rivolto al Presidente della Repubblica,
affinché intervenisse presso il Parlamento, per far
approvare al più presto la legge sul testamento biologico e
il fine vita.
Certo, si possono avere diverse opinioni, tutte
condivisibili o meno, che rispecchiano due differenti modi
di vedere la vita: coloro che sostengono l’inviolabilità di
quest’ultima, quale intangibile dono di Dio, e altri che la
considerano un fattore biologico, che si può interrompere se
causa sofferenza e si è arrivati a perdere la propria
dignità.
Ognuno di noi ha il diritto di comportarsi come ritiene più
opportuno: la vita è nostra; la vita è di chi la vive.
La vita è un diritto, non un obbligo.
Alla fine l’opzione migliore sarebbe puntare sulla libertà,
la libertà di tutti: la libertà dei cattolici, dei
non-cattolici, dei non-credenti. Per la libertà di
rassegnarsi alla sofferenza e per la libertà di non
rassegnarsi.
La sofferenza psicofisica è indubbiamente una schiavitù.
Ogni uomo ha un suo margine di sopportazione soggettiva,
oltre il quale la sofferenza viene considerata e vissuta
come una schiavitù insopportabile.
Nessuno può deciderlo al posto suo. La sofferenza
sopportabile per qualcuno può essere insopportabile per un
altro. Senza che il primo abbia ragione e il secondo torto o
viceversa.
Le due concezioni di vita non sono parallele, né
complementari. Sono, invece, profondamente asimmetriche.
È il caso di essere più espliciti. La concezione contraria
alla libertà di morire vorrebbe che il divieto legale di
decidere della propria morte fosse imposto a tutti (anche ai
sostenitori dell’altra concezione). La concezione favorevole
alla libertà di morire, di contro, ammettendo che ciascuno
possa legalmente disporre di sé, consentirebbe a chiunque di
scegliere se e quando porre termine alle proprie sofferenze.
In altri termini, mentre la concezione contraria alla
libertà di morire, se tradotta in legge, si imporrebbe
inevitabilmente a tutti, la concezione favorevole alla
libertà di morire, consentirebbe ad ognuno di seguire la
propria volontà.
Può il legislatore di uno Stato laico, ossia uno Stato
tenuto ad accogliere e conciliare le diverse concezioni
della vita, adottare una posizione di negazione del
problema?
L’Italia è una delle poche democrazie occidentali che non ha
ancora approvato due leggi fondamentali: quella sul
testamento biologico e quella di istituzione del reato di
tortura. Ovviamente si tratta di questioni del tutto
diverse, ma che sembrano toccarsi in un punto terribile.
D’altro canto, sopportare qualcosa di “insopportabile” come
una vita di sofferenza e malattia, non è forse una forma di
tortura?