Manuela Mistretta III E
“Senza
piccioli e rispetto sei il nulla mischiato al niente” diceva Totò
Riina.
Quando si parla di “Mafia”, di criminalità organizzata, il primo
nome che viene in mente alla maggior parte delle persone è Totò
Riina.
La Mafia è un fenomeno che è molto conosciuto e purtroppo diffuso a
livello nazionale ed internazionale. L’interesse principale sono i
soldi, il potere, il rispetto, e per ottenerli e mantenerli si
eliminano tutti gli ostacoli che intralciano il cammino verso la
conquista.
Cosa nostra, questo è il nome ufficiale della Mafia siciliana,
divenne sempre più forte e, grazie alla sua ramificazione con gli
Stati Uniti, iniziò a controllare i traffici illegali legati alla
prostituzione, alla droga, e all’immigrazione clandestina. Tra le
attività illegali c’è anche quella del “pizzo”, cioè pretendere dai
proprietari di una attività economica un pagamento mensile. Tramite
l’uso di minacce, violenza, e corruzione,
Cosa Nostra ha esercitato un potere sempre forte e permanente
tenendo in pugno la popolazione omertosa e una parte di Stato
corrotta. La mafia coinvolge e cattura migliaia di giovani a partire
dalla prima infanzia; essa socializza, forma, educa e trasmette la
sua cultura, superando abissalmente l'educazione impartita in
maniera formale dalla scuola e dalle istituzioni culturali.
Al fine di spingere i giovani a scegliere “da che parte stare”, a
non restare in silenzio e prendere posizione di fronte ad un
fenomeno del genere, i docenti Rosaria Cascio e Roberto Lopes (del
Liceo Vittorio Emanuele II) hanno promosso un progetto dal titolo
“Padre Pino Puglisi ed altri Uomini Giusti : ecco le vittime di
mafia” grazie al quale nelle diverse carceri minorili siciliane gli
studenti.
Si tratta di diverse conferenze con parenti di vittime di mafia come
Francesco Vecchio, Beffe Alfano, Rosario Livatino, Giuseppe Fava, e
certamente Padre Pino Puglisi.
A questa conferenze partecipano i minori e non minori detenuti,
studenti, Direttore del Centro di Giustizia Minorile per la Sicilia,
giornalisti, e testimoni delle vite delle vittime.
Le carceri visitate sono state quelle di Palermo, Messina, Catania,
Acireale e Caltanissetta, in ognuna delle quali si è trattato di
Mafia e vittime diverse ed è avvenuta la rappresentazione del
musical “E tu da che parte stai?” di Roberto Lopes.
FRANCESCO VECCHIO
«Francesco
Vecchio era un padre come tanti altri. Attento ai bisogni della sua
famiglia, sempre affettuoso e molto presente. Amava fare il suo
lavoro con onestà e fino all’ultimo giorno della sua vita ha
compiuto il suo dovere da uomo libero e consapevole, non ha mai
chiuso gli occhi di fronte al malaffare, era semplicemente una
persona normale e a qualcuno ha dato fastidio proprio questo, la sua
normalità». Inizia così il racconto di Salvatore Vecchio, figlio di
Francesco Vecchio. Vecchio ottenne l’incarico di Direttore del
Personale dell’Acciaieria Megara, altra importante industria
catanese.
Nel mese di agosto del 1990, la gestione passò alla Direzione del
Personale. A seguito di alcuni controlli effettuati sulle attività
di queste ditte, Vecchio decise di estendere anche ai dipendenti
delle aziende esterne le modalità di controllo delle presenze al
lavoro già in uso per i dipendenti della Megara. Poco dopo
iniziarono le minacce telefoniche e le intimidazioni in azienda. Le
indagini sono state indirizzate sia sul versante del possibile
interesse della mafia al finanziamento regionale ed alla
acquisizione del controllo dell’azienda.
Vecchio era sempre stato molto riservato ed a casa non parlava quasi
mai del suo lavoro. «In famiglia era colui che risolveva i problemi
badando a non trasmettere mai le sue preoccupazioni; tentava di
limitare il più possibile le ansie dei suoi cari, i loro timori, non
manifestando preoccupazione per le telefonate e le minacce che
giungevano a casa» così ci testimonia sua moglie durante l’incontro
ad Acireale. In quel periodo ormai tutta la famiglia viveva con la
consapevolezza inconscia di un pericolo che, al tempo stesso, in
qualche modo, si tentava di rifiutare ed allontanare nel tentativo
di continuare a condurre una vita serena.
E’ stato ucciso all’età di 52 anni nella Zona Industriale di Catania
il 31 ottobre del 1990, insieme all’Amministratore dell’azienda,
Alessandro Rovetta, mentre tornava a casa dopo una giornata di
lavoro. Sono passati più di diciassette anni dalla sua morte ed il
suo omicidio non ha ancora avuto giustizia. Non c’è stato un
processo, non ci sono stati indiziati. E’ rimasto tra i pochi
omicidi di mafia a Catania dell’ultimo ventennio ad essere ancora
impunito. Francesco Vecchio è una vittima innocente della mafia che
ha avuto la sola colpa di non volersi piegare al ricatto e di volere
rimanere libero ed onesto.
BEFFE ALFANO
Ventisei
anni fa a Messina, la mafia uccideva Beppe Alfano, corrispondente
del quotidiano "La Sicilia" di Catania. Giornalista “rompicoglioni”
per passione, già prima di collaborare per il quotidiano “La
Sicilia” Alfano aveva iniziato a denunciare abusi, inadempienze,
sprechi della pubblica amministrazione attraverso le antenne di
Telenews. Aveva raccontato la guerra tra cosche nel Messinese, gli
affari per i maxi-appalti per i lavori pubblici, gli scandali legati
alle frodi di produttori agrumicoli che intascavano illegalmente i
fondi europei. La sera dell'8 gennaio 1993, a bordo della sua auto,
Beppe Alfano venne ucciso da alcuni sicari, con tre colpi di
pistola. Dopo svariate indagini stati condannati in via definitiva
un mandante – il boss Giuseppe Gullotti – e un esecutore – Antonino
Merlino. Fino a quando le dichiarazioni del pentito Carmelo D’Amico
non hanno dato la svolta: “Ad uccidere il giornalista non fu
Antonino Merlino ma “Stefano Genovese” ha dichiarato ai pm di
Messina che hanno aperto una nuova inchiesta sull'omicidio. Le
indagini sono tuttora in corso e i reali mandanti dell'omicidio non
sono ancora stati individuati in sede giudiziaria.
ROSARIO LIVATINO
«Quando
moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti,
ma credibili.» Queste erano le Parole di Rosario Livatino,
magistrato italiano considerato Servo Di Dio dalla Chiesa Cattolica.
Procuratore presso il tribunale di Agrigento, ricoprì la carica fino
a quando non assunse il ruolo di giudice a latere. Qualche anno
prima da sostituto procuratore aveva condotto le indagini sugli
interessi economici della mafia, sulla guerra di mafia a Palma di
Montechiaro, sull’intreccio tra mafia e affari, delineando il
“sistema della corruzione”. Stando alla sentenza che ha condannato
esecutori e mandanti del suo omicidio, Livatino è stato ucciso
perché «perseguiva le cosche mafiose impedendone l’ attività
criminale. Non faceva mistero di una profonda fede cristiana, che
conciliava rigorosamente con la laicità della propria funzione.
Venne ucciso il 21 settembre del 1990 mentre si recava, senza
scorta, in tribunale, per mano di quattro sicari assoldati dalla
Stidda agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa
Nostra. Era a bordo della sua auto quando fu sorpreso dall'auto dei
killer. Tentò disperatamente una fuga a piedi attraverso i campi
vicini ma, già ferito da un colpo ad una spalla, fu raggiunto poco
dopo e freddato a colpi di pistola. Del delitto fu testimone oculare
Pietro Nava, sulla base delle cui dichiarazioni furono individuati
gli esecutori dell'omicidio.
GIUSEPPE FAVA
Giuseppe
Fava è stato uno scrittore, giornalista, drammaturgo e sceneggiatore
italiano. Nel 1980 gli viene affidata la direzione del “Giornale del
Sud” e ne fa un quotidiano coraggioso, in prima fila nel denunciare
le attività mafiose a Catania. Licenziato dal “Giornale del Sud”,
continua la sua campagna antimafiosa diventando editore del suo
stesso mensile, con una cooperativa che riuniva i suoi ragazzi, i
suoi giornalisti, i suoi occhi per la speranza di una Sicilia
libera. Pubblica un’inchiesta-denuncia (“I quattro cavalieri
dell'apocalisse mafiosa”) sui collegamenti fra quattro importanti
imprenditori catanesi e il clan di Nitto Santapaola. Lui fece nomi
che nessuno aveva avuto il coraggio di fare, mostrò foto che non
dovevano essere viste, raccontò alleanze nascoste da tutti. Disse
insomma la verità, raccontò i fatti. Il 5 Gennaio 1984 Giuseppe Fava
stava andando a prendere la nipote al teatro Verga (come racconta
lei stessa durante un incontro nel carcere di Catania). Aveva appena
lasciato la redazione del suo giornale. Non ebbe il tempo di
scendere dalla sua auto che fu ucciso da cinque proiettili alla
testa. Inizialmente, l'omicidio fu etichettato come delitto
passionale, sia dalla stampa sia dalla polizia. Un'altra ipotesi era
il movente economico, per le difficoltà in cui versava la rivista.
Solo successivamente la magistratura valuta meglio il ruolo di Fava
nella denuncia dell’attività dei clan e nel 1998, istruendo il
processo “Orsa maggiore”, che si conclude con la condanna di Nitto
Santapaola all’ergastolo come mandante dell’omicidio.
Puglisi, Fava, Livatino, Vecchio, Alfano, così come Falcone,
Borsellino, Grasso, e tutti coloro che si sono ribellati alla
criminalità organizzata, all’illegalità, non devo essere ricordati
come eroi, come figure lontane dalla nostra quotidianità. Erano
tutti uomini come noi, che svolgevano il proprio lavoro per
sostenere la propria famiglia e che hanno voluto combattere la
mafia, ognuno di loro con i mezzi che avevano a disposizione.
Mi appello a tutti gli studenti, genitori, e a tutte le persone che
leggeranno questo articolo.
Non restate in silenzio, non abbiate paura di prendere posizione,
abbiate la forza di lottare, di non restare indifferenti.
Come diceva Peppino Impastato : “Io voglio scrivere che la mafia è
una montagna di merda! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia
troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non
accorgerci più di niente!”